La vicenda storica e letteraria dei 'Vicerè' al Quirino di Roma
Roma, 2 dic. (Adnkronos) - Dalla storia risorgimentale alle pagine di un romanzo verista fino ai palcoscenici teatrali. La complessa vicenda storica e letteraria descritta da Federico De Roberto in 'I Vicerè' viene ora dipanata dalla messinscena diretta da Guglielmo Ferro, sul palco del teatro Quirino di Roma fino a domenica, con Pippo Pattavina in un ruolo da protagonista nei panni di Don Blasco, uno dei diversi personaggi della nobile famiglia degliUzeda, erede dei vicerè spagnoli, le cui vicende si svolgono a Catania nella seconda metà dell'Ottocento, in quella Sicilia percorsa dai timori e dagli entusiasmi sollevati dall'impresa garibaldina dei Mille e dal passaggio dalla monarchia dei Borbone al Regno d'Italia.
La inesauribile sete di potere e di denaro che contraddistingue gli Uzeda si acuisce alla morte della principessa Teresa e alla lettura del suo testamento, che privilegia due dei suoi sette figli. Scelta contrastata dagli esclusi, destinatari di lasciti minori, su cui alimenta il fuoco proprio Don Blasco, il personaggio interpretato da Pippo Pattavina, frate benedettino con scarsissima vocazione religiosa e dalla vita dissipata fra donne e banchetti, prete reazionario che 'gattopardescamente' dopo la vittoria di Garibaldi e il plebiscito con cui i siciliani aderiscono all'Italia unita, non si fa scrupolo di abbracciare le nuove idee patriottiche e liberali.
"I Vicerè si inseriscono a pieno titolo nel racconto della storia del nostro Paese e non solo di quella del Meridione o della Sicilia, regalando un affresco stupefacente delle trasformazioni, degli inganni, degli equivoci, dei dolori, delle miserie, degli appuntamenti mancati e dei fallimenti, lungo due generazioni - osserva Guglielmo Ferro nelle note di regia - La famiglia degli Uzeda attraversa la faglia più clamorosa della nostra gestazione nazionale, dai Borbone ai Savoia. Pubblicato nel 1894 a Catania, dopo un percorso travagliato e soffertissimo, segna con l’insuccesso clamoroso tutta la carriera di De Roberto, accomunabile a Tomasi di Lampedusa ed al suo 'Gattopardo', umiliati entrambi in vita e poi glorificati post-mortem".
(di Enzo Bonaiuto)