Cosa significa “smart” e come si lega al benessere delle persone
Ecco perché oggi la tecnologia va accolta.
Cinque miliardi di persone nel mondo hanno accesso a internet, oltre 4,5 miliardi abitano i social network. Gli smartphone toccheranno quota 6,5 miliardi entro la fine dell’anno, sfioreranno gli 8 miliardi da qui al 2027. Le sim attive sono già 8,3 miliardi, più degli abitanti della Terra, mentre il traffico di dati in mobilità è cresciuto del 39 per cento solo nell’intervallo dell’ultimo anno. Ha generato un groviglio poderoso di scambi e comunicazioni intangibili.
Occorre affiancare questa sequenza di cifre altisonanti per confermare un’impressione inevitabile, per afferrare una certezza impalpabile: viviamo in un pianeta iperconnesso, in cui differenze, credenze e singolarità si livellano di fronte a una comunanza generale di abitudini virtuali. A unirci sono lo streaming video e i videogame, la voglia di pubblicare storie sui social, lo shopping comodo fatto da casa. I flussi inesausti di foto, icone e parole, il lessico universale di questo tempo fluido.
Ha senso, dunque, preparare il terreno a un’era nuova, a un cambio di filosofia da abbracciare con partecipazione e consapevolezza, che ruoti intorno a una parola: Smart. Parola che contiene un moto, un’idea dinamica di rifiuto della passività.
Smart, dunque brillanti, persino intelligenti, sono o vorrebbero essere la casa e l’industria, le città e le automobili. La lavatrice che manda una notifica al telefonino quando ha finito con il bucato, i macchinari di un’azienda che segnalano quando si stanno per rompere, i semafori adattabili ai flussi capricciosi del traffico, le vetture che si guidano da sole o, almeno, alleggeriscono l’autista di una parte abbondante del suo tradizionale ruolo.
Sono tutte evoluzioni mirabili, applicazioni che semplificano compiti, levano di torno vecchie scocciature; permettono di risparmiare denaro, sostituendo logiche predittive all’incombenza del fatto compiuto (e un guasto, in una catena di produzione, può essere una scocciatura immane).
Smart è visione e azione, coralità, coordinamento di frontiere. Ci riesce perché abbraccia il buono del nuovo, incoraggia il pratico, non rinnega il curioso, né lo riduce alla sua ragion d’essere. Mantiene accesi l’aspirapolvere parlante, i droni volanti, i parcheggi infarciti di chip, ma nel suo ethos tenta di elevarsi: antepone la ricerca dell’utile plurale, del benessere collettivo.
Ci avviciniamo al metaverso, a esperienze da vivere con visori sul naso, immersi dentro orizzonti inediti. Il concetto di smart potrà essere la bussola per orientare questi altrove in maniera costruttiva, accompagnando l’ennesima metamorfosi di un’antropologia culturale.
In una traiettoria in cui la burocrazia, la medicina e l’istruzione si affidano sempre più al digitale, il concetto di smart ne dilata le possibilità, i campi d’applicazione, le ricadute positive, contenendo quelle derive che siamo noi stessi a favorire. Lo facciamo mentre continuiamo a scegliere come password sequenze consecutive di numeri («123456» è la regina), la nostra data di nascita, assortite e parecchio espugnabili ingenuità. È intanto che succede: l’intelligenza artificiale conduce una battaglia epica contro i malintenzionati informatici, protegge la sicurezza nostra e dei nostri cari. È silenziosa quanto incisiva, potente quanto invisibile. Si pone come esempio provetto del lato utile, quieto, del concetto di smart.
Un ormai vecchio adagio recita che la tecnologia è neutra, a caratterizzarla è l’uso che se ne fa. Non va rifiutata, né abbracciata acriticamente o con rassegnazione. Bisogna accoglierla, cercando di comprenderla; coglierne il bene, sfruttandone gli automatismi a proprio vantaggio. Senza spettri di paure: non finiremo schiacciati dai robot, tiranneggiati dalle macchine, depredati del monopolio che ci definisce e connota, quello delle emozioni.
In Irriducibile, il suo ultimo libro, Federico Faggin, il genio italiano inventore del microprocessore, ricorda che «la creatività, l’etica, il libero arbitrio e l’amore gioioso possono venire solo dalla coscienza». Non dobbiamo temere o fuggire l’innovazione, siamo e resteremo gli esseri più smart di questo mondo.
Marco Morello, Giornalista esperto d'innovazione